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Se nel 1992 la classe politica avesse capito la lezione, forse avrebbe potuto salvarsi

Pubblicato venerdì 13 febbraio 2015 alle 14:29:45 - By Massimo Fini

A fine marzo partirà su Sky la fiction «1992», in dieci puntate. L'oggetto è naturalmente Mani Pulite e la fiction inizia con l'arresto, il 19 febbraio 1992, di Mario Chiesa un parvenu socialista che il partito di Craxi aveva messo alla presidenza del Pio Albergo Trivulzio perché lucrasse anche sui vecchietti. Mani Pulite avrebbe potuto essere per la classe politica l'occasione per emendarsi, per prendere coscienza che la propria corruzione era diventata insostenibile, economicamente quanto moralmente. E forse anche per salvarsi. Invece Craxi, segretario dell'allora potentissimo Psi, definì Chiesa «un mariuolo» facendo intendere che si trattava di un'occasionale mela marcia in un cesto di mele intonse. E quando il 3 luglio del 1992 Craxi fece il famoso discorso alla Camera chiamando in correità tutti i partiti, non solo era troppo tardi ma quel discorso, contrariamente a quanto quasi tutti hanno sostenuto scambiandolo per un atto di coraggio, era particolarmente vile perché il segretario del Psi lo fece quando era stato colto a sua volta con le mani sul tagliere. Quello che Craxi disse in luglio avrebbe dovuto dirlo nel febbraio del 1992. Allora avrebbe avuto un minimo di credibilità.

 

Il periodo 1992-94 fu per una parte esaltante e per l'altra penoso. Esaltante perché per la prima volta anche la classe dirigente era chiamata al rispetto di quelle leggi che tutti noi cittadini siamo tenuti a osservare. Penoso perché l'esercizio di paraculismo dei giornali che avevano sostenuto le nefandezze della Prima Repubblica raggiunse livelli acrobatici da sport estremi. Abbandonato rapidamente il vecchio idolo, Craxi, tutti si stesero come sogliole ai piedi di quello nuovo, Antonio Di Pietro, il leader del pool di Mani Pulite. Mi ricordo in particolare, per lussuria laudatoria, un editoriale di Paolo Mieli, direttore del Corriere, intitolato «Dieci domande a Tonino».

 

Ma durò poco. Passata la buriana i partiti si rimisero in pista con le seconde linee e i giornaloni, come li chiama Travaglio, tornarono a rigar dritto. In un paio di anni vedemmo con stupore rovesciare le carte in tavola: i colpevoli erano diventati i magistrati, le vittime i ladri e giudici dei loro giudici.

 

Berlusconi si inserì abilmente nella grande confusione. Prima cercò di cavalcare Mani Pulite offrendo a Di Pietro (definito in seguito «un uomo che mi fa orrore») il ministero della Difesa. Poi, indagato a sua volta, con una costante, capillare, tambureggiante campagna condotta dai suoi giornali, dalle sue Tv, private e pubbliche, e da 'lui medesimo', fece di tutto per delegittimare la Magistratura.

 

La lunga stagione berlusconiana ha questo di diverso: mentre nella Prima Repubblica i partiti rispettavano almeno la forma della legalità (sei ministri del governo Amato si dimisero per aver ricevuto un avviso di garanzia, cosa, a mio parere, anche eccessiva), dopo l'illegalità divenne sfacciata, spudorata, un titolo di merito.

 

Cito a titolo di puro esempio Luigi Bisignani. Piduista, in seguito condannato a due anni di carcere nell'ambito delle inchieste di Mani Pulite, radiato dall'Ordine dei giornalisti, divenne il principale consigliere dell'amministratore delegato delle Ferrovie, Lorenzo Necci, e poi di quello dell'Eni Paolo Scaroni. Oggi è un'opinionista molto richiesto dalle maggiori Tv. Nella sua parabola si riassume, in miniatura, la storia italiana degli ultimi trent'anni.

 


Massimo Fini

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